Dal 1° aprile 2020 il nuovo regolamento sull’indicazione dell’ingrediente primario

Dal 1° aprile 2020 si applica il Reg. 2018/775, che prevede i casi nei quali è obbligatorio indicare il paese d’origine o il luogo di provenienza dell’ingrediente primario di un alimento, da intendersi cioè “l’ingrediente o gli ingredienti di un alimento che rappresentano più del 50% di tale alimento o che sono associati abitualmente alla denominazione di tale alimento dal consumatore e per i quali nella maggior parte dei casi è richiesta un’indicazione quantitativa”.

Lo scopo della norma è prevenire i comportamenti scorretti nella comunicazioni ai consumatori di informazioni ingannevoli sui prodotti alimentari, tali da indurli a ritenere che l’alimento abbia una determinata origine.

Il Regolamento – che non si applica ai prodotti c.d. “sfusi”, né  alle indicazioni geografiche protette, quali le DOP, IGP, STG; mentre l’indicazione in esame può essere omessa in presenza di marchi d’impresa registrati, laddove questi ultimi costituiscano un’indicazione dell’origine – trova applicazione quando il consumatore può essere tratto in inganno a causa della natura del prodotto (ad esempio, nel caso di alimenti associati ad un territorio particolarmente rinomato, e quindi associato a quel prodotto) o delle informazioni, anche grafiche, che lo accompagnano. In questo caso, l’obbligo di riportare in etichetta l’indicazione di origine dell’alimento implicherà anche l’obbligo di riportare l’origine del relativo ingrediente primario, se diversa da quella dell’alimento globalmente inteso.

Infine, stante la precedente adozione nel nostro ordinamento di alcuni provvedimenti per alcune tipologie di prodotti (segnatamente per il latte e i prodotti lattieri caseari, per il grano duro per paste di semola di grano duro, per il pomodoro e per il riso), si pone un problema interpretativo quanto alla applicazione dei rispettivi decreti ministeriali ed il Regolamento in questione.

Sempre sul piano interpretativo del Regolamento 2018/775, appare utile la Comunicazione della Commissione sull’applicazione delle disposizioni dell’articolo 26, paragrafo 3, del Regolamento (UE) n. 1169/2011 (2020/C 32/01).

Regolamento UE sull’indicazione del paese d’origine dell’ingrediente primario

Il Regolamento UE n.775/2018 sull’indicazione dell’ingrediente primario, che non è lo stesso paese d’origine o luogo di provenienza indicato per l’alimento

Dal 1 aprile 2020 entra in vigore il Regolamento n.775/2018, il quale stabilisce le modalità di applicazione della previsione contenuta nell’art. 26, par. 3 del Regolamento n. 1169/2011.

Entra così in vigore la disposizione normativa che regola l’“indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza dell’ingrediente primario, che non è lo stesso paese d’origine o luogo di provenienza indicato per l’alimento”.

La novità normativa sembra avere diverse implicazioni interpretative ed applicative: in generale sotto un profilo comunicativo, perché in tal modo l’alimento può valorizzare il prodotto con richiami a luoghi di provenienza ma anche prevenire informazioni ingannevoli sul prodotto alimentare. Sarà poi necessario individuare i criteri per la determinazione del Paese di origine e del luogo di provenienza, nonché stabilire con esattezza il significato di “ingrediente primario”.

Sul piano pratico, quanti operano nel settore alimentare dovranno adeguare dal 1° aprile il contenuto delle etichette alla novità portata dal Regolamento n.775/2018.

Scarica il regolamento

Sicurezza ICT 2020 – Milano 14 febbraio 2020

Con un programma di incontri unico per capillarità territoriale, da 11 anni il Roadshow Sicurezza ICT è un’occasione di incontro e confronto fra domanda e offerta di soluzioni per la security e la protezione delle informazioni aziendali. Ad arricchire i contenuti del convegno, i contributi di società del mondo della ricerca, della consulenza, dell’università e legali consentono di completare il programma, mentre nell’area espositiva, allestita nelle adiacenze del convegno, vengono serviti i momenti ristoro utili a creare convivialità e agevolare il contatto fra i visitatori e le aziende presenti.
Tra i relatori anche il nostro Avv. Giuseppe Maria Giovanelli, che tratterà il seguente tema:

Cyber Security e Forensics readiness: obblighi, responsabilità e sanzioni
Le nuove norme in materia di perimetro di sicurezza nazionale cibernetica e le altre in materia di sicurezza delle informazioni e dei dati impongono la definizione di metodologie, procedure e politiche adeguate, l’uso di software e di hardware appropriati all’interno delle organizzazioni, sia per fare fronte alle minacce sempre più evolute e personalizzate, il cui concretizzarsi, però, espone a rischi l’intera collettività, sia per disporre di evidenze digitali idonee a rappresentare ogni circostanza utile alla difesa dei propri diritti e interessi. L’intervento esaminerà alcuni dei principali recenti framework in materia di sicurezza cibernetica in relazione alle principali sanzioni previste dalle vigenti disposizioni di legge.

Programma dell’evento

Sviluppumbria, incentivi per attività consulenziali per l’internazionalizzazione

PMI UMBRIA – Sviluppumbria pubblica il bollettino con gli incentivi per chi vuole avvalersi di attività consulenziali per l’internazionalizzazione

Sviluppumbria ha pubblicato sul Supplemento ordinario al «Bollettino Ufficiale» – Serie Avvisi e Concorsi – n. 60 dell’11 dicembre 2018 l’avviso pubblico rivolto alle micro, piccole e medie imprese (MPMI), inclusi i liberi professionisti dell’Umbria, che intendono avvalersi di servizi consulenziali per l’internazionalizzazione.

I beneficiari possono presentare la domanda di contributo a partire dalla data di pubblicazione del presente Avviso sul BURU e fino alle ore 13.00 del giorno 1 marzo 2019 salvo esaurimento delle risorse stanziate di cui all’art. 2 del citato Avviso.

Per supporto specialistico all’internazionalizzazione, spiega Sviluppumbria, si intende un’attività di consulenza volta ad assicurare all’impresa un affiancamento durante le fasi del processo di internazionalizzazione a cui sono interessate, dalla crescita nel breve-medio periodo alla fase di apertura a nuovi mercati esteri, avvalendosi anche dei nuovi strumenti digitali, e/o al potenziamento di quelli esistenti.

Sono ammissibili i seguenti servizi:

1) Supporto all’internazionalizzazione” (50% fino a un max di 7.000,00 euro di contributo pubblico):

  1. per il rafforzamento, in via temporanea, delle funzioni aziendali essenziali per il processo di internazionalizzazione, tramite la disponibilità di un Temporary Export Manager (TEM). I TEM dovranno essere individuati esclusivamente tra le società iscritte nell’apposito elenco del MISE (Allegato 6). Potrà essere attivato un contratto di assistenza massimo di 6 mesi per un importo massimo di euro 14.000,00.

2) Servizi per l’internazionalizzazione” (50% fino a un max di 3.500,00 euro di contributo pubblico):

  1. Per assistenza legale inerente alla contrattualistica internazionale, la gestione delle controversie e recupero dei crediti con riferimento a mercati esteri,
  2. consulenza fiscale su aspetti inerenti la fiscalità societaria e commerciale in contesti internazionali,
  3. consulenza doganale su aspetti tecnici, legislativi e procedurali connessi all’import/export;
  4. ideazione e realizzazione di design e brand per la penetrazione nei mercati esteri.

3) “Promozione sui mercati esteri” (50% fino a un max di 3.500,00 euro di contributo pubblico):

  1. per l’adeguamento di siti web, portali e altri ambienti web-based in inglese o nella lingua del/i Paese/i target;
  2. consulenze per l’attivazione e iscrizione  a piattaforme di e-commerce B2C o B2B esistenti,
  3. per la realizzazione di attività di web marketing rivolte ai mercati target.

4) “Servizi per l’adeguamento tecnico ai mercati internazionali” (50% fino a un max di 3.500,00 euro di contributo pubblico):

  1. per ottenere certificazioni estere di prodotto,
  2. la registrazione dei diritti di privativa industriale (marchi e brevetti) all’estero
  3. per ottenere certificazioni di qualità comunque conformi alle pertinenti norme europee e che agevolano la penetrazione su determinati mercati esteri

Il servizio di cui alla tipologia 1) non è richiedibile per le imprese che hanno già un TEM attivo concesso dal Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) a valere sull’Avviso previsto dal Decreto MISE del 7 aprile 2015.

La documentazione relativa alla richiesta di servizi consulenziali per l’internazionalizzazione può essere scaricata dal seguente link .

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Sulla base di quanto precede e della esperienza maturata negli anni nel settore, comunico la mia disponibilità per le attività indicate nei punti 2, 3 e 4 del citato avviso pubblico.

Per ogni ulteriore informazione al riguardo potete contattare telefonicamente lo Studio (06-64561826) o visitare il presente sito web.

Nel restare a disposizione per ogni chiarimento ed occorrenza al riguardo, evidenzio che il termine per la presentazione della domanda per la fruizione dei vaucher scade il giorno 1 marzo 2019.

Cordiali saluti

Avv. Giuseppe Maria Giovanelli

Convegno: le nuove sfide imposte dal regolamento europeo sulla privacy

24 Maggio 2018 alle ore 17.00

presso l’Università Telematica Pegaso – Sede di Roma
via di San Pantaleo n. 66

Programma del Convegno

Saluti

Alessandro Bianchi – Magnifico rettore dell’Università Pegaso

Apertura dei lavori

Carlo De Masi – Presidente Adiconsum

Carlo Vecchietti – Presidente Previmedical RVB

Modera

Prof. Franz Ciminieri – Presidente dell’Associazione Ancislink e della Rete Scelgo Europa

Partecipano

Giuseppe Maria Giovanelli  – Avvocato del Foro di Roma

Gabriele Mele – Dottore in Giurisprudenza

Elio Bava – Presidente SIOBEN

Giuseppe Serafini – Avvocato del Foro di Perugia

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La PMI ed il marchio per l’inizio di un percorso di internazionalizzazione. La creazione di un brand

I temi più studiati intorno al fenomeno dell’internazionalizzazione riguardano i motivi e i fattori propulsivi che spingono le aziende ad intraprendere questo percorso, la selezione dei paesi esteri e i modi d’ingresso.

Per quanto riguarda l’inizio di questo percorso, esso trova nella conoscenza del mercato e nella modalità d’ingresso i presupposti per la successiva graduale espansione. Accanto a queste modalità vi possono essere altri modi di intraprendere l‘internazionalizzazione, ad esempio determinati dalla specificità del settore o dalle caratteristiche del mercato individuato.

In questo tipo di approccio in genere ci si preoccupa da subito di predisporre un “piano operativo per l’export”, con l’individuazione del mercato e dei canali distributivi. Raramente però viene detto all’impresa che vuole approcciare l’estero di analizzare preventivamente il proprio contesto aziendale.

L’urgenza e la fretta di arrivare su un certo mercato fanno trascurare questo fondamentale passaggio, volto a stabilire i propri punti di forza (come l’intuito sul prodotto, la capacità di cogliere ed interpretare i bisogni dei clienti, l’elevata qualità dei prodotti e dei servizi, la dimensione umana della conduzione aziendale, la creatività ed il design italiani, derivanti dalle capacità individuali legate anche alla storia ed alla cultura) e di debolezza (la scarsa propensione alla condivisione, la poca attitudine allo studio e all’analisi dei mercati esteri in cui andare, il limitato sviluppo delle funzioni di supporto, come il marketing, il controllo di gestione, la tecnologia, la scarsa managerialità, una visione di breve durata ed urgente, a scapito del metodo di una attenta programmazione).

Non dare la giusta importanza a questo passaggio significa compromettere da subito la riuscita dell’iniziativa perché la PMI, non essendo strutturata per tale percorso, non è ancora pronta a compiere questo salto.

Nell’analisi del contesto aziendale, la metodologia da sviluppare (in funzione dell’obiettivo finale: il nuovo mercato) non può prescindere da un punto di partenza fermo: il prodotto. Su di esso devono concentrarsi una serie di riflessioni iniziali e da queste devono poi seguire altrettante decisioni sul piano del metodo e della successiva strategia. In altri termini – qui tralasciando le tematiche legate agli altri assets di diritto industriale come i disegni o modelli, le invenzione o i modelli di utilità – se si vuole cercare il successo del proprio prodotto su un nuovo mercato non basta investire in pubblicità o curare nei dettagli la creazione di una rete commerciale. Occorre qualcosa che nella maggior parte dei casi una PMI trascura: l’adozione (preventiva) di un segno distintivo. Solo attraverso esso l’azienda potrà veicolare un prodotto verso i consumatori perché è attraverso un segno distintivo che l’azienda instaura un rapporto con il pubblico dei consumatori; con esso contraddistingue un prodotto sul mercato, senza  dimenticare che un segno distintivo ha un suo specifico valore economico.

Più da vicino, si può osservare come i segni distintivi sono lo strumento che permette al consumatore di essere arbitro consapevole nella scelta di un prodotto, premiando con il successo quello ritenuto buono e scartando quello ritenuto cattivo. Ciò è possibile anzitutto attraverso il marchio, che sul mercato assume un rilievo preminente, svolgendo la funzione di distinguere i prodotti o i servizi ai quali è apposto (art.7 Codice Proprietà Industriale). La funzione distintiva del marchio risulta ancora più chiara se si considera che i consumatori identificheranno i prodotti contrassegnati con un certo marchio, al quale collegano le caratteristiche che sono loro proprie.

Sotto il profilo della comunicazione, il marchio si può accompagnare con un claim, capace di trasmettere dei messaggi ulteriori sul prodotto (da aggiungere alla etichetta, con il suo contenuto obbligatorio). Tutti questi strumenti concorrono a creare un brand, da intendersi quale espressione multidimensionale che contiene sia gli aspetti propriamente distintivi sia quelli valoriali dell’azienda, rispetto ai quali il pubblico dei consumatori maturerà la propria esperienza ed aspettativa e, in definitiva, contribuirà alla notorietà del prodotto. Fatta questa premessa e chiarita la funzione del marchio, proviamo a sviluppare alcune considerazioni.

Innanzitutto, sotto un profilo strategico, il prodotto deve essere collegato alla nazione e alla sua azienda. L’importanza di questo collegamento risulta più chiara se si tiene presente l’influenza che il Paese di origine ha a livello conscio ed inconscio sul processo di valutazione (e, quindi, di selezione) del prodotto. Per semplificare, le comunità di oriundi italiani saranno più inclini alla scelta (consapevole) del prodotto di origine italiana perché evoca in loro il legame con il Paese d’origine; mentre per le persone che non hanno un legame di discendenza con l’Italia, l’acquisto di un prodotto italiano avrà una diversa matrice (più emotiva), magari legata ad una generica idea di bontà o, più probabilmente, ad una situazione di benessere sociale, di status conseguito (si pensi a quanto il prodotto alimentare italiano, al pari di quello della moda, sia ricercato all’estero).

In entrambi gli esempi appena fatti – ma per diversi motivi – risulta comunque altamente evocativa la dicitura “made in Italy” per il suo valore simbolico e comunicativo. Un prodotto destinato all’estero, che può fregiarsi correttamente di quella dicitura, permette di collocarsi su quel mercato proprio favorendo l’associazione tra il prodotto, il Paese d’origine e la qualità (che il Paese “garantisce”).

L’apprezzamento del prodotto non riguarda solo la sua struttura fisica ma l’insieme di valori che con esso sono trasmetti al consumatore. Su un piano generale, il marchio è l’elemento idoneo a veicolare significati ed immagini che connotano il prodotto che esso contraddistingue in termini di qualità e provenienza. Di un oggetto conta la struttura, l’uso, il confezionamento, il servizio post-vendita, l’immagine dell’azienda, il prezzo, la pubblicità, l’immagine che il prodotto dà a chi lo usa, ecc. Per questo il collegamento tra il prodotto ed il segno (che quel prodotto contraddistingue) è un fatto ineludibile: il pubblico che consuma più volte lo stesso tipo di prodotto orienta la sua scelta sulla base dell’esperienza o dell’aspettativa. Il consumatore al momento dell’acquisto non deve indagare ogni volta se il prodotto ha le qualità che si aspetta. E’ il marchio, in una simile esperienza, a guidarlo in quanto portatore di qualità e di valori già sperimentati o cercati.

L’importanza di costruire con tempo un percorso internazionale dell’azienda non può prescindere dalla adozione di un segno distintivo che, in una logica di localizzazione del marchio, sia connotato fin dall’inizio con gli opportuni elementi idonei a veicolare significati a livello internazionale. Il nome da registrare come marchio dovrà tener conto di quelle logiche di localizzazione comunque presenti su un mercato internazionale ed il suono, la pronuncia ed il nome non dovranno suscitare immagini negative o significati sfavorevoli. Per questo accanto al nome dell’azienda o del prodotto, se già presente sul mercato domestico, si può valutare l’adozione di un marchio di prodotto ad hoc per un certo mercato, magari facile da pronunciare e memorizzare, in armonia con l’immagine che l’impresa vuole trasmettere e dei diversi orientamenti culturali.

A completamento delle considerazioni svolte, va aggiunto che la registrazione del marchio (e l’adozione delle strategie ad esso collegate, come sopra visto) permette all’azienda di sviluppare sul nuovo mercato i rapporti commerciali necessari alla sua penetrazione: si pensi ai rapporti con i distributori e partner a vario titolo, ma anche alla possibilità di difendere e contrastare i tentativi di concorrenza sleale e, in particolare, di contraffazione del proprio nome (e sul mercato internazionale sono frequenti i casi di imitazione dei segni distintivi altrui, in particolare per il settore alimentare, con il problema del c.d. italian sounding, ovvero l’utilizzo di denominazioni geografiche, immagini e marchi che evocano l’Italia per promuovere e commercializzare prodotti per nulla riconducibili al nostro Paese).

Avv. Giuseppe Maria Giovanelli

gmg@studiogiovanelli.org

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General Data Protection Regulation (GDPR): così lontano così vicino!

Ancora pochi mesi ed il GDPR (General Data Protection Regulation, il Regolamento generale sulla protezione dei dati personali), concernente la tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali e la libera circolazione dei dati, diventerà direttamente applicabile dal 25 maggio 2018.

Il Regolamento introduce regole più chiare in materia di informativa e consenso, definisce i limiti al trattamento automatizzato dei dati personali, pone le basi per l’esercizio di nuovi diritti, stabilisce criteri rigorosi per il trasferimento di dati al di fuori della UE e per i casi di violazione dei dati personali (data breach).

Tra le novità introdotte dal Regolamento, che impongono alla Pubblica Amministrazione e alle aziende di adeguarsi, si segnalano:

  • la definizione dei processi di applicazione delle misure di sicurezza commisurate ai rischi per i diritti e le libertà delle persone;
  • la creazione di un processo di notifica delle violazioni dei dati;
  • la tenuta di un registro dei trattamenti svolti;
  • l’ampliamento dei diritti degli interessati, con la formalizzazione del diritto all’oblio e alla portabilità;
  • ​la creazione di una nuova figura di controllo, il Data Protection Officer;

Per chi non si adeguerà, le sanzioni saranno molto pesanti: potranno raggiungere infatti i 20 milioni di Euro oppure il 4% del fatturato annuo.

Per affrontare questo tema complesso e cruciale per una azienda, con immediate ripercussioni sul proprio business (basti pensare alla frequenza degli scambi commerciali con l’estero o ai rapporti con il pubblico dei consumatori ma anche alla creazione e conservazione di banche dati), lo Studio ha creato un pool di professionisti, con comprovata ed eterogenea esperienza nella materia, per fornire un supporto strutturato e completo affinchè i clienti possano:

– rendere trasparente e comprovabile l’attività di protezione dati svolta;
– mantenere il modello organizzativo costantemente aggiornato e adeguato;
– ridurre i costi e gli impatti organizzativi conseguenti al GDPR.

L’attività – calibrata sulla specifica realtà imprenditoriale – viene svolta attraverso due distinte fasi: nella prima viene curata la gap-analisys, attraverso un rapporto diretto con le aree IT, HR e marketing, qualità, ecc., per lo studio delle applicazioni del cliente, con particolare riferimento a quali fra esse trattano dati sensibili; nella seconda viene svolta l’attività di assistenza e consulenza per realizzare il vero e proprio adeguamento normativo.

 

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Ancora qualche considerazione sul welfare aziendale e la sua difficile diffusione nelle PMI

Ancora qualche considerazione sul welfare aziendale e la sua difficile diffusione nelle PMI
La mancanza di informazione e di una cultura del welfare  impedisce la creazione di appositi piani aziendali, a scapito della competitività e del benessere dei dipendenti

Nel contatto quotidiano con le aziende è facile constatare la mancanza basilare di informazione da parte loro sulle possibilità offerte dal sistema del welfare aziendale così come promosso dalla legge finanziaria del 2015 ed incrementato da quelle successive. La legge di Stabilità 2016, infatti, ha apportato novità importanti nella materia con una serie di disposizioni che ampliano il panorama dei benefit erogabili per facilitare la diffusione del sistema di welfare attraverso beni e servizi detassati; con la legge di bilancio 2017 l’incentivo fiscale per l’incremento della produttività aziendale ha introdotto importi più elevati rispetto al passato.

Tuttavia, alla mancanza di informazione si somma poi la carenza di una cultura aziendale nella materia che invece permetterebbe alle imprese di avere benefici diretti in termini di miglioramento dei parametri di produttività e di competitività mentre ai lavoratori un miglioramento del loro benessere generale. E’ ormai noto come il welfare aziendale sia un fattore determinante per la valorizzazione del capitale umano. Una recente indagine condotta sul benessere e la motivazione dei lavoratori mostra che il cambiamento dei bisogni si realizza su due punti: maggiore potere d’acquisto e più servizi alla persona e alla famiglia. E la risposta a questi bisogni va trovata proprio nel welfare aziendale, che permette un risparmio, rispetto ad una erogazione in denaro (con un costo ben maggiore), sia all’azienda sia al lavoratore.

E’ un dato acquisito che la mancanza di informazione sul tema del welfare aziendale si riscontra prevalentemente nelle PMI, nelle quali – a differenza delle aziende di dimensioni più grandi, dove è presente una più evoluta concezione dei benefit, grazie anche alla presenza di una struttura dedicata alla gestione e sviluppo delle risorse umane – le condizioni per lo sviluppo di un welfare aziendale sono senza dubbio più complesse.

Se è vero che la crescita del welfare aziendale nasce in conseguenza della crisi del welfare state, perché non più in grado da solo di garantire la richiesta di prestazioni sociali, è anche vero che il coinvolgimento del privato (datore di lavoro) nelle piccole e medie imprese lo ha trovato impreparato perché non adeguatamente informato, così da rallentarne la sua diffusione. Sfugge, infatti, al datore di lavoro l’utilità che può derivare dal sistema di welfare, inteso come lo strumento con il quale l’azienda realizza “una più efficace strategia di motivazione dei dipendenti a fronte di una retribuzione non monetaria ma nei tipici servizi del welfare aziendale con forme di sostegno alla genitorialità, al reddito familiare, allo studio, alla salute, al tempo libero, oltre ad agevolazioni varie di tipo commerciale” (Filippo Di Nardo, “E’ cambiato il patto sul lavoro: dallo scambio lavoro-retribuzione allo scambio lavoro-benessere”), con tutti i vantaggi fiscali collegati sia per l’azienda (che risparmia sul costo del lavoro) sia per il lavoratore (che riceve somme al netto).

L’obiettivo deve essere quindi quello del coinvolgimento e della diffusione presso le PMI, che rappresentano oltre il 94% del sistema produttivo italiano, del sistema welfare. Questo obiettivo potrà essere positivamente perseguito se si accresce innanzitutto la cultura del welfare aziendale presso le stesse PMI, per favorire poi la costruzione di piani di welfare aziendale, anche con l’utilizzo di forme di aggregazione, come le reti di impresa, per accedere in modo più facile e meno oneroso a network di servizi.

Certamente, perché la cultura del welfare aziendale possa diffondersi presso le  PMI occorre anche un più facile accesso ai servizi di welfare, ad esempio attraverso una gestione più snella che la renda economicamente più fruibile o con la creazione di una aggregazione a livello territoriale che utilizzi questi servizi. E proprio il tessuto locale, magari per il tramite delle associazioni di categoria, dovrebbe favorire la crescita e la diffusione di questa cultura, che avrebbe ricadute positive sull’intero territorio con la fruizione di servizi.

Avv. Giiuseppe Maria Giovanelli

gmg@studiogiovanelli.org

www.studiogiovanelli.org

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